Un festival letterario decide di lanciare un censimento dei poeti
italiani fra i 20 e i 40 anni. Ma per farlo deve prima rispondere a una
domanda: che cosa si intende per poeta, quando complice il web i versi
sono dovunque e, come ci fa osservare l’editore Nicola Crocetti, se si
digita la parola «poesia» le segnalazioni possono essere 108 milioni su
Yahoo e 72 milioni su Google? Bisogna scegliere. Quelli di Pordenolegge
hanno così stabilito un criterio in apparenza complicato, basato su una
specie di catena di Sant’Antonio: sono partiti da una ventina di giovani
poeti ben riconoscibili, chiedendo di indicarne altri e via via
arrivando per incroci ai primi 284 autori.
Hanno dovuto stabilire anche i requisiti editoriali di base: dovevano
essere autori pubblicati in volume, raccolte, antologie, riviste di
carta o digitali, ma garantiti e mediati da un curatore. Niente fai te,
dal self publishing a Facebook, alle poesie inviate autonomamente a siti
letterari. Un meccanismo un po’ complicato. «Ma anche semplice -
replica l’ideatore, il poeta Gian Mario Villalta - perché in fondo è
basato sul passaparola. L’esistenza di un mediatore serve anche per
garantire un minimo di comunità». Perché nel web, dove sembrerebbe
dominare il principio che uno vale uno, il risultato è spesso che tutto
vale zero. «Il web crea dei tunnel dove alcuni parlano fra loro, e
credono di parlare al mondo». Con i suoi numeri inimmaginabili, forse
sta cambiando la poesia. E nello stesso tempo, funziona come una
gigantesca macchina di scrittura.
Un poeta molto noto come Giuseppe Conte ci invita a un piccolo
esperimento: scrivere nella striscia di ricerca di Google il titolo di
un suo breve componimento, Energia mutabile.
Il risultato è impressionate, perchè il testo (molto bello: «L’amore
vero, tu lo sai, è volere/la gioia di chi non ci appartiene/è questo
uscire, traboccare//da se stessi come il sangue dalle vene/ per un
taglio, è l’irrinunciabile,/ amore energia mutabile eterno bene»)
rimbalza da una quantità di pagine e siti i più imprevedibili, letterari
e non, persino vagamente pubblicitari. «A volte anche trascritta male,
ma che importa? - dice Conte -. La poesia viaggia in rete in modo
imprevedibile». Il nemico non è certo il web, semmai un clima culturale,
«che de determina - sono ancora parole di Conte - la perdita di senso
politico-sociale. Se poesia è una piccola esternazione personale, tutti
sono poeti. Ma se lavora dentro il linguaggio nel senso dell’utopia,
della liberazione, della ribellione, dei grandi sogni, ecco, diventa
rarissima. Perché viene messa da parte, condannata all’irrilevanza?
Rispondo che questo è un problema della società, non dei poeti».
In piena età romantica P. B. Shelley scriveva che «i poeti sono i non
riconosciuti legislatori del mondo». Oggi non vale più? «La poesia è
l’essenza della libertà, e dall’800, da Walt Whitman in poi, la vera
essenza della democrazia. I poeti non possono fare solo i poeti». Il
rischio è infatti quello di un «poetichese» di massa, a volte languido a
volte rancoroso, quasi sempre banale. Moltiplicato per milioni di
scritture. Se per Villalta l’abbondanza è illusoria («Quando torniamo a
considerare quelli che lavorano seriamente, sono i numeri di sempre»)
per Conte la quantità non è di per sé una minaccia: «Chi vuole cercare
la poesia, la trova». E Nicola Crocetti, che da decenni tiene viva con
la sua piccola casa editrice e la rivista «Poesia» l’idea che un
pubblico esista, ci fa osservare come, quando curò per il Corriere della sera una serie di libri di poesia in vendita col giornale, ebbe risultati straordinari.
Racconta però anche una delle esperienze (ricorrenti) più dolorose.
Alle fiere, per esempio a Torino, c’è sempre qualcuno che si ferma
davanti al suo stand, esamina i libri, li posa e interrogato risponde:
«Sì, scrivo, ma non leggo per non farmi influenzare». Sarà una vecchia
cultura parrocchiale, che il web è destinato a spazzare via? Crocetti ci
spera, Alfonso Berardinelli ne dubita. Il critico letterario che nel
‘75 legò il suo nome (con Franco Cordelli) a una celebre antologia, Il pubblico della poesia,
ha un’ipotesi controcorrente: «Può sembrare un paradosso, ma da allora
non è cambiato molto». Già si intuiva «l’enorme quantità dei poeti
emergenti. Negli Anni Settata legati ai movimenti di massa, oggi alla
locomotiva del web». Berardinelli è piuttosto duro: «I poeti teorizzano
che l’essere fuori mercato li rende liberi. Penso il contrario: il
mercato è anche pubblico, e un’arte senza pubblico inevitabilmente
degenera. La mancanza di pubblico è più grave di una possibile “viltà”
della critica, e il web forse ha peggiorato le cose».
Non crede più alla poesia? «Non credo alla poesia come categoria, ma
semmai nelle buone poesie. Per le quali ci vogliono talento,
determinazione e studi». Lei ha scritto un libro dal titolo ironicamente
e feroce: Non incoraggiate il romanzo.
Vale anche per la poesia? «Non mi fraintenda, In Italia abbiamo ottimi
poeti, anzi ottime poetesse, penso a Bianca Tarozzi o a Patrizia
Valduga, a Patrizia Cavalli o a Anna Maria Carpi. Ma non bisogna
dimenticare che nella prosa, dove c’è un pubblico, alla fin fine, se uno
è cretino, si vede. Nella poesia no, eppure ce ne sono, e di prima
forza».
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